…se oggi può raccontare quanto gli è accaduto lo deve al team dei chirurghi vascolari del dr. Giovanni Rossi dell’ospedale Manzoni di Lecco.
Pino Bollini, dal 1976 al 2000 responsabile al pronto soccorso del Mandic, oggi soprattutto fautore e promotore del “Progetto Sololo” contenitore di tante attività per risollevare dalla povertà le famiglie e i bambini di uno dei villaggi più poveri dell’Africa sub sahariana, ci racconta l’accaduto dalla sua casa di Robbiate dove dovrà trascorrere altri due mesi di convalescenza.
Il peggio è passato ma quello che ha trascorso non ha difficoltà a definirla “l’esperienza meno bella (o forse più bella) della mia vita”.
Portatore di una protesi all’aorta addominale (stent) impiantata una quindicina di anni fa a seguito di un aneurisma, Bollini si trova in Africa a inizio di quest’anno quando il dispositivo si infetta. “Non potevo immaginare cosa era in corso. Avevo dei disturbi ma ho atteso di rientrare in Italia a marzo per una serie di accertamenti che non hanno rivelato nulla di particolare. Ad agosto avevo una debolezza ingiustificata. Dagli esami è risultato che la proteina C dal valore di 4 era salita a 14 segnale di una grave setticemia. Sono andato al Mandic con l’idea di programmare un ricovero e lì mi hanno trattenuto al volo. In pochi giorni mi hanno fatto la diagnosi: si era infettata la protesi. Il primario di medicina mi ha detto che non vedeva un caso simile da trent’anni e mi hanno trasferito a Lecco nel reparto infettivi, in isolamento, dove a seguito di ulteriori accertamenti la diagnosi è stata nuovamente confermata”.
La situazione del dottor Bollini appare fin da subito critica: il quadro clinico è compromesso, l’intervento non è facile e non è da tutti poiché i rischi che il paziente possa non superare l’operazione sono molto elevati. Sulla sua strada Bollini trova il dottor Rossi e la sua équipe che decidono di “aprirlo”. 12 ore di intervento dove si toglie la protesi, si pulisce la cavità e se ne impianta un’altra. “La situazione era peggiore di quella che si poteva vedere con gli esami.” L’operazione riesce ma il paziente non è ancora fuori pericolo e tempo qualche giorno subentra una fistola all’aorta che si apre nel tubo digerente. Anche in questo secondo caso l’équipe lo salva per un pelo; fa il miracolo (ma di questo parleremo dopo) tornando ad aprirlo. “Mi hanno portato al volo in sala operatoria e hanno fatto quello che altri si sarebbero rifiutati di fare, dando il caso per chiuso”. La seconda operazione salvavita dell’équipe del dottor Rossi gli ha permesso oggi di essere qui a raccontare. Ma ancora non era finita. Una sacca di raccolta infetta, formatasi in prossimità del moncone distale dell’aorta toracica appena suturata, poteva condannare Bollini alla morte. “Così per l’ennesima volta il dottor Rossi e la sua squadra, non si sono fermati. Mi hanno preso al volo e operato ecoguidati, aspirando e drenando la sacca, dando la possibilità al problema di risolversi.
“Non dimenticherò mai l’espressione del dottor Rossi quando la sera successiva, seduto accanto al letto mi presentava il punto della situazione affermando che non aveva più margini chirurgici ma che comunque non si sarebbero mai arreso. Parole che da medico ho usato anch’io al suo posto in analoghi contesti … Comprendevo bene il quadro clinico e sapevo di essermi già giocato tutte le possibilità. Stavo imboccando la dirittura di arrivo finale. Guardavo in faccia il dottor Rossi leggendovi una profonda stanchezza e negli occhi la “tristezza-empatica” di chi stava pensando di salutarmi per sempre. E invece…”. Quella sera succede qualcosa. Mentre si fanno strada nella mente di Bollini la consapevolezza della gravità della sua salute e dell’eccezionalità degli interventi ricevuti, un’immagine tra i ricordi gli attraversa i pensieri. “Tra il 2003 e il 2004 ho avuto modo di collaborare con suor Leonella Sgorbati missionaria a Mogadiscio, morta ammazzata li e poi beatificata. Una persona eccezionale che mi è rimasta nel cuore. Io sono credente ma non molto praticante. Ecco, quella sera quando Rossi era seduto accanto a me e mi diceva di essere estremamente preoccupato per la sacca che si era formata e io gli chiedevo se c’era spazio per fare qualcosa e il suo sguardo già mi diceva tutto … il ricordo della religiosa si è presentato inaspettato … a lei ho chiesto aiuto: mi conosci, ti hanno dato il “patentino”, ti chiedo di intercedere per aiutarmi ad uscirne ancora una volta o che almeno mi si conceda la forza di accettare ciò che appare con altissima probabilità di accadere. La mattina dopo sono arrivati i referti degli esami di laboratorio condotti sull’aspirato dalla sacca; un solo campione su sei ha dato esito positivo. Tramite il drenaggio che era stato posizionato, la storia ha preso bruscamente e in maniera inaspettata la naturale strada della guarigione: la sacca si è prosciugata completamente in pochissimo tempo. Ecco perché io mi considero un miracolato grazie alla intercessione di suor Leonella; leo, per gli amici”. Quando una verità ti viene raccontata, puoi dubitare sia del racconto che di chi te lo ha fatto; ossia, si ha sempre il margine per non ritenerla vera. Quando s’incontra direttamente di persona l’esperienza della Verità, è Lei che s’impone da sola; rimane solo la scelta se accettarla o rifiutarla. La scienza dei miracoli con Ezio Fulcheri dell’Università di Genova spiega la posizione attuale della Chiesa cattolica: “Cos’è un miracolo? È qualcosa di inspiegabile, un evento speciale che può verificarsi in modi diversi… ma non escludere processi naturali [rari] che si discostano dal normale corso delle cose”.
In tutto questo percorso di cura e guarigione c’è stato il personale ospedaliero a fare la differenza. Tutti, dal medico all’infermiere. “Mi hanno davvero trattato in modo eccellente, oltre il dovuto. Per chi come me è del mestiere, ci si rende conto che queste persone svolgono il loro lavoro davvero per scelta personale e dunque diventano “ricattabili”. Sono sotto organico, stanchi, stressati. E il fiore all’occhiello che posso dire di avere trovato, è nel sacrificio di queste persone. Non lo voglio associare alle propagande di politici che fanno parte di coloro che li “ricattano” per mancanza di mezzi e di soldi”.
Fino a novembre Pino Bollini resta allettato e ricoverato in ospedale. Quando finalmente le dosi di antibiotico calano e possono essere concluse, viene rimandato a casa anche perché l’ospedale nel frattempo si va riempiendo nuovamente di pazienti covid.
Avuta salva la vita, Bollini però ora deve salvare la sua Sololo. In questi mesi, infatti, non ha potuto portare avanti la raccolta fondi per la sopravvivenza del progetto, che a sua volta significa la sopravvivenza di non meno di un migliaio di persone.
“Esiste il povero che ha meno di un dollaro al giorno e che in qualche modo riesce ad andare avanti e poi c’è la persona nella “povertà estrema” che è quella che sa di avere buone probabilità di non poter arrivare a sera”. È a questi ultimi che Bollini rivolge le sue attenzioni. “Il nostro aiuto gli dà la possibilità di arrivare alla sopravvivenza. Gli forniamo un kit famiglia comprensivo del minimo necessario: cibo, vestiario, arredi ed utensili, gli paghiamo la sanità e quando possibile anche la capanna, la capra, … e, dati alla mano, dopo qualche anno queste soggetti, approfittando dell’aiuto, hanno avuto modo di intraprendere una loro attività autonoma. Si sganciano dal Progetto-Sololo perché da “poveri estremi” sono diventati “poveri” e come tali sono ora in grado di badare da soli alla loro sopravvivenza”.
“Progetto Sololo” costa all’incirca 160-mila euro l’anno, che per un migliaio di persone (chiaramente non sempre le stesse, in quanto c’è un continuo ricambio) sono 160 euro a testa all’anno.
La raccolta dei fondi necessari avviene con i sostegni a distanza (SaD) e tante altre iniziative in cui amici, simpatizzanti, sostenitori hanno creduto e contribuito a far proseguire nel corso del tempo.
Da gennaio, oltre a quanto già in essere, serviranno altri 4-mila euro al mese per far continuare il “Progetto Sololo” e non darlo per concluso a fine 2020. Il cruccio di Bollini è di non essere riuscito a fare tutto il possibile in questo anno per garantirgli la sopravvivenza. Da qui l’appello affinchè cittadini, enti, magari qualche azienda pur nella consapevolezza del periodo difficile che si sta vivendo, riescano a contribuire ciascuno con le sue possibilità a dare un domani a chi un domani adesso davvero non ce l’ha. “Una piccola donazione mensile, purché costante, può salvare il Progetto-Sololo, facendo la differenza per centinaia di “ultimi tra gli ultimi”, ha scritto nel suo sito “Sto chiedo a loro nome; voglio dirvi che mi costa veramente tanto il farlo; pensando alla pandemia che genera una infinità di bisogni anche qui nel nostro mondo. Tuttavia lo devo fare per dare una voce ed una speranza a chi, in povertà estrema, è “invisibile”.
Dopo tre anni … il “Progetto Sololo” è ancora vivo e se finanziato di più sarebbe anche in grado di supportare un maggior numero di persone. Se puoi … sai cosa fare.